Netflix e l’enigma Naomi Osaka

Il 16 luglio Netflix ha pubblicato un documentario in tre puntate su Naomi Osaka. Il regista Garrett Bradley ha seguito la tennista giapponese fra il 2019 e il 2021, due anni nel corso dei quali è diventata una superstar fra vittorie Slam, sfilate di moda e l’adesione al movimento Black Lives Matter. Il racconto si ferma all’inizio del 2021 e arriva in tv in un momento caldo: al Roland Garros, Osaka si è ritirata dal torneo sollevando il tema della depressione; a Wimbledon non si è presentata. È tornata ai giochi olimpici di Tokyo nelle vesti di ultima tedofora, un ruolo di grande prestigio, ma sul campo ha raccolto un’inaspettata eliminazione al terzo turno.

Il documentario sembrava il modo migliore per svelare l’enigma di una ragazza che a 24 anni ha vinto quattro Slam (due in Australia, due negli Stati Uniti), è la sportiva più pagata del pianeta ed è diventata un simbolo della lotta contro il razzismo. Al termine della terza puntata, però, il mistero resta insoluto. Il documentario è girato molto bene, le riprese sui campi dello US Open sono fantastiche, ma Naomi resta un grande punto di domanda.

Io mi sono fatto l’idea di una ragazza triste, prigioniera di qualcosa che è molto più grande di lei: i sorrisi, anche dopo le vittorie, sono quasi obbligati; più sinceri sembrano i pianti, gli sguardi persi nel vuoto, troppi per una ragazza che ha già scritto il suo nome nella storia dello sport.

Il trailer di Naomi Osaka, disponibile dal 16 luglio su Netflix

Lo spleen di Naomi Osaka ha le radici piantate nell’infanzia. Mamma e papà – lei giapponese, lui originario di Haiti – hanno faticato molto per farla crescere. Naomi racconta di un periodo buio in cui la madre faceva gli straordinari e dormiva in automobile, giocare a tennis – diventare una star del tennis – era un modo per aiutarla. In pochi anni è diventata milionaria, la missione è riuscita in pieno: ci sarebbe da stare allegri, ma qualcosa di più profondo le impedisce di trovare la pace.

Una delle scene che mi ha più colpito è girata nel corso di una cena. Naomi sta festeggiando il compleanno con genitori e familiari, a un certo punto si rivolge alla madre e le chiede: «Pensavi che a 22 anni avrei fatto di più?». La risposta più sensata sarebbe: «Cosa stai dicendo figlia mia? Hai vinto due Slam a 22 anni, stai scherzando?». La mamma invece ci pensa un attimo e poi risponde solo «no». Viene da chiedersi quante e quali aspettative accompagnino questa ragazza da quando ha preso una racchetta in mano.

Segnata dalla morte del mentore Kobe Bryant, Osaka trova nuova determinazione con il movimento Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd. Pensando alle violenze, ha come un’illuminazione: «Il tennis non serve a niente – dice – lo pratico perché mi piace. Ma al mondo ci sono cose più importanti». Partecipa in prima persona a una manifestazione in Minnesota, decide di non scendere in campo al torneo di Cincinnati in segno di protesta, vince lo US Open indossando mascherine con i nomi delle vittime del razzismo: è il momento in cui Naomi catalizza le simpatie di gran parte del mondo.

Il documentario finisce qui. Il resto è cronaca recente con la depressione, i ritiri dai tornei, il buco nero delle Olimpiadi. Naomi fa i conti con i suoi demoni, cosa le passi per la testa è un mistero: lasciamola in pace. Quel mistero, del resto, è parte del suo fascino.

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